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Durata del periodo di ITA in infortuni da COVID-19

6 Ottobre 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

L’INAIL fornisce chiarimenti sulle modalità di conferma diagnostica e durata del periodo di inabilità temporanea assoluta (ITA) negli infortuni da COVID-19 e sui criteri medico-legali da adottare per il riconoscimento del nesso causale e la definizione della presunzione semplice nelle infezioni.

Durata del periodo di ITA in infortuni da COVID-19
La definizione del periodo di ITA avverrà, quando l’infortunato è risultato asintomatico e negativo a due test molecolari, confortati in tal senso dai criteri forniti dal Ministero della salute (circolare n. 0006607 del 29.02.2020).
Pertanto, soltanto nel caso in cui vi sia evidenza dell’esecuzione di due test molecolari consecutivi negativi, sarà possibile definire la fine del periodo di ITA, la quale coinciderà, in ogni caso, con la data di notifica del risultato negativo del secondo test.
In questa fattispecie infettiva, infatti, i concetti di guarigione clinica, di stabilizzazione del quadro e di prognosi medico-legale, non sempre coincidenti per le lesioni infortunistiche, devono risultare sovrapponibili. Ciò al fine di evitare di riammettere al lavoro soggetti non ancora guariti completamente dall’infezione, creando in tal fatta situazioni di pericolo per se stessi o di diffusione del contagio ad altri lavoratori, che condividono con l’infortunato l’ambiente di lavoro.
Per quanto attiene alla definizione sugli atti, la stessa si avvarrà degli elementi acquisiti dal lavoratore mediante contatto telefonico e/o telematico.
Nel caso in cui vi sia ricomparsa dei sintomi dopo il secondo tampone negativo, se il primo periodo di ITA non è stato ancora definito, si procederà al prolungamento dello stesso sino alla risoluzione della sintomatologia e alla nuova negativizzazione del soggetto.
Qualora, invece, la ricomparsa dei sintomi avvenga a distanza di tempo dalla chiusura  del primo periodo di ITA, si dovrà procedere all’apertura di un incarico di ricaduta ovvero di un nuovo incarico base, nel caso si trattasse di recidiva.

 

Criteri medico-legali per la definizione della presunzione semplice
La presunzione semplice non elide la necessità che l’istruttoria medico-legale contempli, caso per caso, le seguenti verifiche:
1. qualificazione del livello di rischio dell’attività lavorativa effettivamente svolta (evidenze tecnico-scientifiche, casistica)
2. corrispondenza tra lo svolgimento in concreto dell’attività lavorativa e la categoria generale richiamata (momento di verifica fondato su: dettaglio di luogo e tempi di lavoro; analisi dei compiti e delle mansioni effettivamente prestati; rilievo anamnestico; informazioni formalmente pervenute dal datore di lavoro; risultanze di eventuali indagini ispettive sull’adozione delle misure di contenimento)
3. coincidenza tra dato epidemiologico territoriale e picco epidemico/pandemico e contagio (tempi di latenza sintomatologica/incubazione). Analogamente rileva il criterio epidemiologico aziendale, relativo alla presenza di altri lavoratori sul medesimo luogo di lavoro contagiati per esposizione riconducibile all’attività lavorativa (anche in questo caso con valutazione del criterio cronologico e del periodo di latenza)
4. verifica della prova contraria, in base alla quale va adottato il criterio di esclusione di altre possibili cause rispetto a quella lavorativa. Essa richiede, a sua volta, l’analisi di ulteriori elementi, quali:
– lavoro svolto effettivamente in presenza nell’ambiente a rischio di esposizione elevata (come sopra verificato)
– presenza di contagi familiari (con valutazione del criterio cronologico e del periodo di latenza)
– modalità di raggiungimento del luogo di lavoro, che potrebbe non giustificare il contagio professionale (sia per infortunio in occasione di lavoro e tanto più per quello in itinere.).
La dimostrazione condotta per i lavoratori esposti a elevato rischio di contagio, per i quali si applica il principio della presunzione semplice, a meno di prova contraria, conduce alla positiva verifica medico-legale. L’appartenenza del lavoratore alla categorie a elevato rischio professionale determina, quindi, il riconoscimento medico-legale del nesso causale. Vi possono, viceversa, essere situazioni in cui, pur appartenendo alla categoria a elevato rischio professionale, nel caso concreto, l’istruttoria medico-legale, secondo i principi sopra richiamati, non consente di soddisfare il nesso causale (si pensi, a esempio, all’operatore sanitario che non ha lavorato in presenza ovvero alla prova di un contagio intrafamiliare che, per tempi e modalità di insorgenza dell’infezione, rappresenta il reale momento infettante).
Viene, pertanto,  superata la indeterminatezza del momento di contagio, in presenza di elementi di prova gravi, precisi e concordanti, che devono scaturire dall’istruttoria medico-legale, basata sui criteri elencati con i numeri da 1 a 4.
L’istruttoria medico-legale condotta secondo i criteri sopra elencati, innanzitutto, permette di individuare il gradiente di esposizione professionale, facendo emergere l’elevata rischiosità di contagio e, quindi, l’applicazione anche per tutte le altre categorie non previste nell’elenco dei principi ampiamente richiamati. Il mancato inserimento nell’elenco delle categorie lavorative a elevato rischio non preclude, né pregiudica in alcun modo l’ammissione del caso a tutela, anche quando ci si trovi in una condizione di solo rischio generico aggravato.
In definitiva, dunque, gli infortuni da agenti biologici, tra cui ricade appunto il coronavirus, restano saldamente ancorati alla tutela infortunistica Inail,  consolidate:
– dalla natura infortunistica delle infezioni e – nello specifico – della tutela assicurativo sociale pubblica
– dal rapporto tra l’infezione e l’attività lavorativa, sulla base di conoscenze scientifiche, dati statistico-casistici, caratteristiche dell’ambiente lavorativo, mansioni e compiti espletati in concreto, esclusione di altre cause.

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