7 gen 2021 Nell’ipotesi di truffa ai danni dello Stato, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all’atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione. In ogni caso, pur in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, può comunque applicarsi la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, salvo che essi non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (Corte di Cassazione, sentenza 30 dicembre 2020, n. 37913) Un Tribunale di prime cure aveva riconosciuto alcuni dipendenti pubblici come responsabili del reato di truffa aggravata, per una serie di episodi di allontanamento ingiustificato dal luogo di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno e legati alla “pausa caffè” consumata presso il bar antistante il luogo di lavoro e per un tempo complessivo stimato in 16 ore, corrispondenti a 140,00 euro di retribuzione.
In appello, poi, la Corte territoriale aveva assolto diversi imputati dal reato loro ascritto e, per altri, rideterminato la pena per il reato di truffa aggravata. In particolare, la Corte di merito aveva ritenuto che un danno non apprezzabile può essere ritenuto solo nei casi di assenza limitate, nel complesso, ad alcun ore, indicativamente pari ad una retribuzione inferiore ai 50,00 euro.
Avverso la sentenza ricorrono così in Cassazione i lavoratori, lamentando che il reato doveva intendersi consumato al momento della percezione della retribuzione mensile, anche per la quota parte non dovuta, sicché le fattispecie criminose sarebbero dovute essere in realtà plurime, corrispondenti alla percezione delle diverse mensilità interessate, nell’ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere sommati. Di qui, il danno patrimoniale subito dalla Pubblica amministrazione andava quantificato, mediamente, in 28,00 euro mensili ed ogni singolo allontanamento (corrispondente a 3,00 euro) rappresentava un fatto eventualmente rilevante sul piano disciplinare ma non penale. Di contro, i diversi episodi erano stati considerati singoli fatti di reato che i giudici di merito avevano riunito nel vincolo della continuazione.
Con un secondo motivo, poi, si lamenta l’erroneità della sentenza laddove essa, replicando a tutti gli imputati che avevano avanzato richiesta di applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), riteneva che si fosse in presenza di condotte reiterate e pertanto abituali.
Premesso l’annullamento della sentenza per intervenuta prescrizione dei reati, la Suprema Corte ritiene fondato il primo motivo.
In primis, la necessaria esistenza di un danno “apprezzabile” non implica l’individuazione di una “soglia” di punibilità. Altresì, i fatti sono stati considerati effettivamente in termini di truffa “continuata”; in particolare, la Corte di merito ha valutato le assenze contestate come singole ipotesi di reato, ma ha poi quantificato il pregiudizio patrimoniale arrecato alla P.A., accorpando e cumulando tutte le assenze per ciascuno degli imputati nell’intero arco di tempo vagliato nel corso delle indagini e considerato nella imputazione, perciò superiore al limite indicato. Alla luce, invece, del consolidato orientamento di legittimità, nell’ipotesi di truffa, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all’atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione (Corte di Cassazione, sentenza 30 maggio 1985, n. 8296).
Quanto al secondo motivo, anch’esso è fondato.
La motivazione della sentenza si lega, in realtà, alla questione esaminata sopra e, in particolare, alla qualificazione dei singoli episodi come singole e specifiche ipotesi di reato, tra le quali è stato ravvisato il vincolo della continuazione che non consentirebbe di ritenere la causa di non punibilità in esame per essersi in presenza di una condotta “abituale”.
Tale affermazione, tuttavia, non è condivisibile, in quanto la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, può ben essere ritenuta anche in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (Corte di Cassazione, sentenza 6 giugno 2018, n. 41011). A tal fine, occorre soppesare l’incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali: gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni anche indirette sottese alla condotta.
In altri termini, il fatto che il reato per il quale si chieda il riconoscimento della causa di non punibilità sia stato posto in continuazione con altri, non osta, in astratto, alla operatività dell’istituto, dovendosi tuttavia valutare, anche alla luce del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta in esame sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all’interesse tutelato sia comunque minimale e, in definitiva, se il “fatto” nella sua complessità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
Per altro verso, pur dovendosi far riferimento ai predetti indici, non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti, ed è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti, ritenuto evidentemente decisivo.