Il professionista è comunque tenuto al versamento dell’Iva in relazione all’incasso del compensi ricevuto in data successiva alla chiusura della partita IVA (Corte di Cassazione – Ordinanza 24 giugno 2021, n. 18081 La controversia trae origine dall’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate ha contestato l’omessa fatturazione ai fini Iva e la presentazione di dichiarazione infedele con riferimento a compensi percepiti in relazione all’attività professionale cessata. La decisione, impugnata dal professionista, è stata confermata dai giudici della Corte di Cassazione.
In particolare, il contribuente non aveva assoggettato ad IVA l’importo incassato dopo la cancellazione della partita Iva, ma riconducibile all’attività professionale in precedenza svolta, per careni del presupposto soggettivo, derivante appunto dalla cancellazione della partita Iva.
I giudici tributari hanno confermato la pretesa tributaria, rilevando che il professionista è obbligato a tenere aperta la partita Iva fino a quando non definisce i rapporti pendenti, compresi gli incassi, oppure a emettere la fattura indipendentemente dall’effettivo incasso.
La Corte Suprema ha osservato che il ragionamento del giudice di merito, basato sulla considerazione della sussistenza dell’obbligo del contribuente, professionista, di procedere comunque al versamento dell’Iva anche dopo la cancellazione della partita Iva qualora il corrispettivo della prestazione dallo stesso resa sia successiva alla suddetta cancellazione, non solo è coerente, sotto il profilo logico, ma è anche corretta in considerazione della disciplina normativa di riferimento.
In altri termini, anche se il pagamento del corrispettivo è effettuato in data successiva alla chiusura della partita Iva, resta comunque rilevante ai fini IVA.
In proposito, la Suprema Corte ha affermato il principio di diritto secondo il quale “il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini Iva, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione”.
Tale principio, in particolare, muove dalla necessaria contrapposizione concettuale tra la nozione di imponibilità a fini Iva e quella di esigibilità, nel senso che, mentre il primo è da porsi in stretta relazione con il “fatto generatore dell’imposta”, cioè con l’evento che costituisce la scaturigine dell’obbligazione tributaria e dell’imponibilità ai fini Iva, cui vanno ricollegati l’operatività della disciplina del tributo ed i relativi effetti, il secondo attiene al diverso profilo della “esigibilità” dell’imposta, cioè dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’erario.
Secondo i giudici della Suprema Corte, al fine di valutare quando sia sorto il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità ai fini Iva, occorre ragionare in relazione al fatto generatore dell’imposta, cioè all’esecuzione della prestazione di servizi, e non anche al pagamento del corrispettivo, ove successivo alla esecuzione della prestazione. Sicché, con il conseguimento del compenso si determina non l’evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo la sua condizione di esigibilità e l’individuazione dell’estremo limite temporale entro cui deve essere adempiuto l’obbligo di fatturazione.
Ne consegue che i compensi di prestazioni da attività imprenditoriale o professionale, conseguiti dopo la cessazione dell’attività medesima, devono ritenersi assoggettati ad Iva, risultandone lo “statuto” impositivo definito dalla contestuale ricorrenza, all’atto del manifestarsi del fatto generatore dell’imposta (e suo presupposto oggettivo) anche del relativo presupposto soggettivo.