L’Agenzia delle Entrate con la risposta 07 luglio 2021, n. 458, ha fornito chiarimenti sul trattamento fiscale delle retribuzioni per lavoro dipendente erogate a soggetti residenti e non residenti che a causa dell’emergenza epidemiologica svolgono l’attività lavorativa in Italia, in smart working, invece che nel paese estero dove erano stati distaccati. Il caso: società di dimensione internazionale appartenente a un Gruppo che ha da sempre investito in programmi di sviluppo promuovendo la mobilità internazionale del proprio personale. L’organico della società è parzialmente composto da dipendenti che svolgono la propria attività lavorativa all’estero presso le sedi del Gruppo (cd. personale outbound) e parimenti da dipendenti, di cittadinanza italiana e non, proveniente dall’estero che svolgono la propria attività lavorativa in Italia (cd. personale inbound). Quesito n. 1 In primis, viene richiesto se per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, durante l’anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso relativo ai giorni di lavoro svolti in Italia sia da considerare come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti e, in quanto tale, sia da assoggettare ad imposizione in Italia. Quesito n. 2 Con il secondo quesito, l’Istante chiede se la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020, dei dipendenti della Società istante abbia comportato, in linea di principio, una modifica nel loro status di residenza fiscale. Quesito n. 3 e 4 Nel caso in cui i dipendenti della Società istante fossero da considerare residenti in Italia, con il terzo quesito si chiede se la base imponibile di lavoro dipendente possa essere determinata ai sensi dell’articolo 51, co. 8-bis, del Tuir, considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia, per cause imputabili all’emergenza sanitaria e definibili di forza maggiore, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all’estero.
È frequente che il personale dipendente della società svolga la propria attività lavorativa all’estero attraverso l’istituto giuridico del distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero, con le altre consociate estere del Gruppo.
L’improvvisa crisi sanitaria internazionale determinata dal diffondersi del Covid19 ha stravolto le modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa per molti lavoratori expatriates. La chiusura della maggior parte delle attività produttive nei primi mesi del 2020 e le misure restrittive alla circolazione delle persone imposte dagli Stati per contenere la diffusione del virus hanno ridotto la possibilità di spostamento e indotto le aziende ad adottare modalità di svolgimento dell’attività lavorativa flessibili (cd. smartworking o lavoro da remoto).
L’eccezionalità di tali misure emergenziali e l’interruzione della mobilità fisica ha fatto sì che i lavoratori svolgessero per periodi più o meno lunghi la propria attività in un luogo diverso, sotto il profilo meramente fisico, da quello previsto dal contratto di lavoro o di distacco.
In particolare, l’implementazione di tali rigorose restrizioni ha determinato alcuni casi di “immobilismo forzato” o, al contrario, la necessità di rientri improvvisi nei Paesi di origine, impedendo poi ai dipendenti il ritorno nel luogo in cui normalmente l’attività veniva prestata.
Nell’istanza all’Agenzia delle Entrate, la società rappresenta il caso di propri dipendenti, assunti con contratto locale in Italia e distaccati presso le consociate cinesi. Alcuni dei suddetti dipendenti non sono coniugati e non hanno figli, altri invece si sono trasferiti nello Stato estero con la famiglia; in entrambi i casi i dipendenti risultano iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE).
Sulla base della qualificazione come soggetti non fiscalmente residenti in Italia ai sensi dell’art. 2, TUIR, la società istante, in qualità di sostituto d’imposta, per l’anno in corso ha sospeso le ritenute sui redditi di lavoro dipendente nei confronti dei suddetti soggetti, ai sensi del combinato disposto dell’art. 3 e dell’art. 23 del Tuir, secondo cui sono imponibili in Italia solo i redditi derivanti da attività lavorativa prestata nel territorio dello Stato.
A causa della straordinarietà della situazione legata all’emergenza sanitaria esplosa in Cina, un gruppo di circa 12 lavoratori sono rientrati in Italia a fine gennaio 2020, continuando a svolgere la propria prestazione lavorativa in remote working, sempre a beneficio della società distaccataria cinese, fino al loro rientro in Cina avvenuto nel corso del mese di luglio 2020.
Conseguentemente, per effetto dei provvedimenti adottati dalle autorità dei due Paesi e anche delle policy aziendali adottate in risposta all’emergenza sanitaria da parte della Società, il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa dei dipendenti in oggetto è quindi eccezionalmente e temporaneamente diventato l’abitazione dei lavoratori in Italia e l’attività svolta in Italia dai suddetti dipendenti in modalità di remote working è rimasta sostanzialmente la medesima durante il periodo di effettiva presenza all’estero.
Pertanto, non vi sono state, tra la Società istante e i dipendenti rientrati in Italia, interruzioni o variazioni contrattuali relativamente alla tipologia di mansioni, alla legal entity (cinese) beneficiaria delle prestazioni di lavoro, alle linee di riporto del lavoratore stesso e alla stessa struttura remunerativa dei dipendenti. In altre parole, il distacco dei lavoratori in Cina da un punto di vista contrattuale e di fatto non ha subito modifiche, né sotto il profilo individuale, né sotto il profilo dell’accordo intercompany, rimanendo il costo addebitato alla società distaccataria cinese.
Inoltre è precisato che un primo gruppo di dipendenti è riuscito a ritornare in Cina in data 2 luglio 2020, altri sono partiti dall’Italia il 29 luglio 2020, i restanti sono riusciti a far rientro in Cina nei mesi successivi di agosto e settembre.
Pertanto, della popolazione di dipendenti espatriati in Cina, alcuni hanno soggiornato di fatto forzatamente in Italia meno di 184 giorni (principalmente coloro i quali sono rientrati in Cina il 2 luglio e il 29 luglio 2020), altri, invece, rimpatriati in Cina nei mesi successivi, hanno trascorso per le stesse cause di forza maggiore più di 184 giorni in Italia.
Con l’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrare la Società istante rappresenta dubbi interpretativi in merito agli obblighi di sostituzione di imposta che è tenuta ad assolvere relativamente alla tassazione del reddito da lavoro dipendente prodotto in costanza di distacco dal lavoratore.
Nello specifico, visto il combinato disposto dell’art. 2, co. 2, e 23 del Tuir la società istante chiede chiarimenti su quali siano gli obblighi del sostituto d’imposta nei confronti di quei dipendenti che, trovandosi per via delle restrizioni dovute al Covid fisicamente in Italia, hanno continuato la loro attività a esclusivo beneficio della distaccataria cinese tramite smart working.
Ai sensi dell’art. 23, co. 1, lett. c), del Tuir, si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi di lavoro dipendente prestato, da soggetti non residenti, nel territorio dello Stato.
Tale disposizione non trova applicazione qualora il nostro Paese abbia stipulato, con lo Stato di residenza del lavoratore, una convenzione per evitare le doppie imposizioni che riconosca a quest’ultimo Stato la potestà impositiva esclusiva sul reddito di lavoro dipendente prestato in Italia.
Al riguardo, si fa presente che l’art. 15, par. 1 del citato Accordo, prevede che le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente per l’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente, sono imponibili in entrambi gli Stati.
In base al combinato disposto dell’art. 15 della citata Convenzione e dell’art. 23 del Tuir, l’Agenzia delle Entrate è dell’avviso che il reddito di lavoro dipendente percepito dai dipendenti della Società istante e residenti in Cina, per l’attività di lavoro svolta in Italia, rilevi fiscalmente anche nel nostro Paese, ai sensi degli artt. 49 e 51, co. da 1 a 8, del Tuir.
La conseguente doppia imposizione sarà risolta, ai sensi dell’art. 23, par. 3, della Convenzione, attraverso il riconoscimento di un credito d’imposta da parte della Cina, Stato di residenza dei lavoratori dipendenti.
Ai fini della individuazione della residenza fiscale di un individuo, secondo il diritto interno e in assenza di una disposizione normativa specifica che tenga conto dell’emergenza COVID, occorre far riferimento ai criteri indicati nell’art. 2 del Tuir, la cui applicazione prescinde dalla circostanza che una eventuale permanenza della persona fisica nel nostro Paese sia dettata da motivi legati alla pandemia.
Infatti, ai sensi dell’art. 2, co. 2, del Tuir si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Tanto chiarito sotto il profilo della normativa italiana, occorre altresì considerare le disposizioni convenzionali; in particolare, nel caso di specie, assume rilievo l’art. 4 del Trattato con la Cina che stabilisce, al par. 2, le cosiddette tie breaker rules per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.
Ciò posto, si osserva come una persona fisica iscritta all’AIRE e rientrata in Italia unicamente a seguito dell’emergenza Covid potrebbe essere considerata fiscalmente residente in Italia secondo le disposizioni interne, in quanto risulterebbe avere il domicilio nel nostro Paese per la maggior parte del periodo d’imposta. Qualora si verificasse un conflitto di residenza con lo Stato estero, questo dovrebbe essere risolto facendo ricorso ai citati criteri convenzionali.
In tale ipotesi, come anche indicato al paragrafo 44 dell’analisi effettuata dal Segretariato OCSE sui trattati e l’impatto della crisi da COVID-19, nell’ipotesi in cui il soggetto disponga di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati, occorrerà verificare gli altri criteri; il conflitto di residenza sarà solitamente risolto usando il criterio del “soggiorno abituale”.
Con specifico riferimento al criterio del “soggiorno abituale”, si richiama il paragrafo 19 del Commentario del Modello OCSE in cui si precisa che il test per dirimere il conflitto di residenza non sarà soddisfatto semplicemente determinando in quale dei due Stati contraenti l’individuo ha trascorso più giorni durante il periodo interessato. Al fine di stabilire il luogo del soggiorno abituale, occorre infatti tener conto della frequenza, durata e regolarità dei soggiorni che fanno parte della routine regolare della vita di un individuo. Inoltre, l’analisi deve coprire un periodo di tempo sufficiente per poter accertare tali aspetti evitando l’influenza di situazioni transitorie.
Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che la menzionata disposizione del Tuir non può trovare applicazione dal momento che richiede il soggiorno all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi, da parte del lavoratore residente in Italia.
Ciò posto, nella fattispecie in esame si ravvisa lo svolgimento nel nostro Paese della prestazione lavorativa da parte di soggetti residenti.