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Società tra professionisti: applicazione della ritenuta sui compensi

19 Marzo 2021 by Teleconsul Editore S.p.A.

La Corte di Cassazione ha affermato che ai fini della qualificazione del reddito prodotto dalle Stp (società tra professionisti), si configura il reddito d’impresa solo quando sia provato che l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale. Solo in tali ipotesi, da accertarsi caso per caso, i compensi devono ritenersi esclusi dall’applicazione della ritenuta d’acconto. In caso contrario, la ritenuta deve essere operata. (Sentenza 17 marzo 2021, n. 7407).

La controversia trae origine dal decreto ingiuntivo con il quale lo studio legale operante nella forma di società tra professionisti a responsabilità limitata ingiungeva al proprio cliente il pagamento (rimborso) della somma trattenuta da quest’ultimo a titolo di ritenuta d’acconto sui compensi pagati.
Il Tribunale ha accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo, ritenendo legittima l’applicazione della ritenuta d’acconto di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 600 del 1973 sui compensi pagati alla società tra avvocati, sul rilievo che al reddito prodotto dallo studio legale, ancorché costituito in forma societaria, fosse applicabile la disciplina fiscale prevista per le associazioni professionali (art. 5, co. 3, lett. c), del TUIR).
Lo studio legale ha impugnato la decisione sostenendo che, siccome era costituito nella forma di società di capitali, le somme percepite come onorario dovessero essere considerate, per “attrazione”, quale reddito di impresa soggetto ad IRES, e pertanto, escluse dall’applicazione della ritenuta d’acconto, secondo la previsione dell’art. 25 del D.P.R. n. 600 del 1973 che “la ritenuta d’acconto non deve essere operata per prestazioni effettuate nell’esercizio di imprese”.

La questione riguarda, sostanzialmente, la qualificazione del reddito prodotto dalle società tra professionisti, e in particolare se costituisca reddito di impresa o reddito di lavoro autonomo.
La Corte Suprema ha osservato che l’assenza di una espressa previsione normativa, che qualifichi la natura, ai fini fiscali, del reddito prodotto dalle società tra professionisti rende necessaria un’attività ermeneutica che, tuttavia, conduce ad esiti diametralmente opposti, a seconda che si scelga di privilegiare il presupposto soggettivo (vale a dire, la natura del soggetto che produce il reddito), ovvero quello oggettivo, che ha riguardo, invece, ai caratteri dell’attività svolta da tali società.
La “dualità” di soluzioni ipotizzabili in relazione alla qualificazione del reddito prodotto dalle Stp, dunque, dipende dal punto di vista da cui si muove:
– in un’ottica puramente “soggettiva”, siccome le società tra professionisti possono essere costituite anche nella forma delle società commerciali, il loro reddito, ai fini delle imposte relative, dovrebbe essere qualificato come di impresa. Ai fini fiscali, le società in nome collettivo e in accomandita semplice generano redditi di impresa a prescindere dalla fonte reddituale e dall’oggetto sociale, così come il reddito complessivo delle società di capitali e degli enti commerciali è sempre considerato reddito di impresa e determinato secondo le rispettive disposizioni;
– sul piano “oggettivo”, il medesimo reddito andrebbe più correttamente qualificato come da lavoro autonomo, considerato che le società tra professionisti sono espressamente costituite per l’esercizio di attività professionali regolamentate all’interno del sistema ordinistico. Inoltre, la qualifica di società tra professionisti può essere assunta unicamente da quelle il cui atto costitutivo preveda l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci. Attività che in base al TUIR genera, però, redditi di lavoro autonomo.
La discrasia tra natura commerciale del tipo societario eventualmente utilizzato e la natura eminentemente professionale dell’attività svolta determina una situazione antinomica, che non ha trovato soluzione a livello normativo, anche in ragione della coesistenza di norme, persino all’interno di una stessa fonte legislativa (è il caso degli artt. 53, da un lato, e 73 e 81, dall’altro, del TUIR), che legittimano interpretazioni diverse.

In considerazione di ciò, precisa la Suprema Corte, la risoluzione della questione va ricercata prendendo atto sia dell’esistenza di attività caratterizzate, contestualmente, “da personalità della prestazione ed impersonalità della società”, sia della “tendenza alla commistione di categorie da sempre considerate distinte”.
Di conseguenza, la qualificazione del reddito di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla presenza all’interno di essa (da accertarsi, caso per caso), di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, capace di spersonalizzare l’attività svolta e di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione professionale che connota l’attività personale tipica del professionista.
Pertanto, in assenza di una previsione specifica nella disciplina di secondo grado (quella fiscale), torna ad avere applicazione diretta quella civilistica (ovvero, di primo grado), e ciò in quanto, ponendosi quella di cui al codice civile come normativa generale, che normalmente cede il passo alla normativa fiscale “speciale”, che disciplina un determinato aspetto dell’istituto nell’ambito di un’imposta o gruppo di imposte”, in assenza di quest’ultima è la prima che ritorna ad essere direttamente applicabile. In questa prospettiva, la norma chiave è costituita dall’art. 2238 cod. civ., la quale, se in linea generale nega – ancorché in modo indiretto – la natura commerciale delle attività dei professionisti intellettuali e degli artisti, stabilisce, nel contempo, che a tali attività intellettuali e artistiche si applichino le disposizioni dettate in relazione all’impresa commerciale, allorché le prestazioni professionali costituiscono elemento di una attività organizzata in forma d’impresa. In sostanza, quando l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, il professionista acquista la qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., con conseguente applicabilità della relativa disciplina.
In altri termini, perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale, occorre anche un’attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista intellettuale, connotata dal carattere della personalità.

In conclusione, ai fini dell’applicazione della ritenuta di acconto alle società tra professionisti, la qualificazione come reddito di impresa, del reddito dalle stesse prodotte, presuppone che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, risultando, così, inserite in strutture che sono frutto dell’impiego del capitale, ovvero che il lavoro del professionista ed il capitale concorrano entrambi nella produzione del reddito, sicché quest’ultimo non potrà ritenersi derivante dal solo lavoro, ma dall’intera struttura imprenditoriale.
Nel caso esaminato, la Corte di Cassazione ha confermato la legittima applicazione della ritenuta d’acconto, sul presupposto della impossibilità di qualificare il reddito come di impresa, non essendo stata fornita la prova dalla STP, anche mediante la produzione di visure societarie, del capitale investito e dell’attività in concreto esercitata per l’appunto in forma societaria e il suo estrinsecarsi diversamente rispetto all’attività esercitata da una associazione tra professionisti. Da ciò l’accertamento negativo, se l’esercizio della professione costituisca, o meno, elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, con prevalenza del carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale.

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